Kurdi, ingiustizia è fatta

 Marzo 1999
Kurdi, ingiustizia è fatta di KENDAL NEZAN*

Dopo aver vagato per quattro mesi attraverso l'Europa, Abdullah Ocalan è stato infine consegnato al governo di Ankara, il 15 febbraio 1999 in Kenia, e trasferito in Turchia dove è stato incarcerato nel penitenziario di Imrali. E' in questa isola-prigione generalmente riservata ai condannati a morte e dove furono, com'è noto, giustiziati nel 1960 l'ex primo ministro democratico Adnan Menderes e due suoi ministri che sarà giudicato il dirigente del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), dal 1984 alla guida della lotta armata. Nel loro insieme i kurdi si sentono umiliati, beffeggiati e ripetono con insistenza il loro adagio dei tempi cattivi: "I kurdi non hanno amici". Per la maggior parte di loro, il dirigente del Pkk, oggetto di una vera e propria caccia all'uomo, è stato vittima di un "complotto" turco-americano-israeliano, con la complicità dei governi greco e keniota. Da qui la loro collera e l'ondata di manifestazioni, spesso violente, contro le rappresentanze diplomatiche di questi paesi in Europa, in Medioriente e in Caucaso. Manifestazioni che potranno continuare e radicalizzarsi. Come misura "preventiva", Ankara ha fatto arrestare, in una settimana, quasi duemila militanti dei diritti umani, kurdi e turchi, e ha vietato alla stampa internazionale l'ingresso in Kurdistan.

Il Pkk "nemico della pax americana" L'Europa, che accoglie molti dittatori sanguinari e corrotti del Sud, ha chiuso le sue porte al capo kurdo, sotto la pressione di Washington e per paura delle rappresaglie economiche turche, soprattutto nel settore della vendita di armi. I dirigenti kenioti, alla guida di un paese al limite del collasso finanziario, accusato di lassismo dagli Stati uniti dopo l'attentato omicida commesso contro la loro ambasciata a Nairobi nell'agosto del 1998, vista la contropartita economica e politica, hanno dovuto accettare di compiere l'incarico che gli era stato assegnato.

Il ruolo svolto da Atene è molto più complesso. L'opinione pubblica greca, per la maggior parte filo-kurda, è stata sconvolta da questo "tradimento", e il primo ministro Constantin Simitis ha dovuto sacrificare tre suoi ministri, tra cui quello degli esteri, Theodore Pangalos. Le autorità greche non hanno ancora potuto fornire una spiegazione soddisfacente sulle ragioni che le hanno portate, il 2 febbraio, a mandare Ocalan in Kenia, paese noto per essere una base dei servizi di informazione israeliani e molto sensibile alle pressioni americane. Né hanno spiegato le ragioni per le quali i diplomatici greci hanno consegnato Ocalan alle autorità keniote. Secondo alcuni giornali turchi, Atene avrebbe accettato di consegnare Ocalan in cambio del nulla osta americano e turco per l'installazione a Creta dei missili SS-300, comprati alla Russia da Cipro; ma questa spiegazione appare un po' sbrigativa. Gli Stati uniti, che dopo il clamoroso fallimento delle loro operazioni segrete in Iraq, nel 1996, cercano di sviluppare una nuova strategia per rovesciare il regime iracheno, hanno più che mai bisogno della cooperazione della Turchia, membro della Nato, per l'utilizzo della base di Incirlik. Per compiacere Ankara, Washington ha messo il Pkk nella lista delle organizzazioni terroristiche, pur non avendo questo mai commesso attentati anti- americani. D'altronde un ex terrorista, fino a ieri vilipeso, Yasser Arafat, non è divenuto un intimo del presidente Clinton?

Per gli Stati uniti, il Pkk costituisce anche l'ostacolo maggiore all'applicazione degli accordi di pace conclusi nel settembre del 1998 tra i due principali partiti kurdi iracheni sotto l'egida di Madeleine Albright, visto che Siria e Iran si servono del Pkk per opporsi alla pax americana. Più in generale, Washington considera il Pkk e il suo leader "irrecuperabili", "nemici da abbattere", anche nel disegno di favorire la progressiva democratizzazione del regime turco e la sua integrazione all'Unione europea.

Israele afferma di non aver partecipato, direttamente, all'operazione contro Ocalan. Ciò nonostante, sono stati i suoi servizi segreti il Mossad a informare Ankara dell'arrivo del capo kurdo a Mosca, nell'ottobre 1998, e consiglieri israeliani addestrano le forze speciali turche in lotta contro il Pkk. Il 4 febbraio 1999, sul New York Times, l'influente editorialista William Safire, evocava la cooperazione tra i servizi israeliani e americani per fermare il "cattivo kurdo, Ocalan".

Contrariamente ai loro predecessori ottomani che, per rispetto dell'avversario, si limitavano a deportare i capi kurdi ribelli, i dirigenti turchi hanno condannato a morte, e impiccato, tutti i leader delle insurrezioni kurde del XX secolo. Conformemente a questa tradizione, stabilita personalmente da Kemal Ataturk, Ocalan, dopo un processo puramente formale, nell'aprile 1999 dovrebbe essere condannato a morte per alto tradimento, in virtù dell'art. 125 del codice penale, e giustiziato. Salvo eccezionali pressioni internazionali, o la capitolazione del capo kurdo sotto l'effetto di droghe che distruggono la sua personalità, resa fragile dai pellegrinaggi degli ultimi mesi. Molti paesi occidentali hanno richiamato Ankara al rispetto delle regole di un processo equo. Si tratta di invocazioni alla pietà, in uno stato dove la giustizia ha potuto condannare a due secoli di prigione (!) l'intellettuale turco Ismail Besikçi per i suoi scritti sui kurdi, e dove gli appelli per un giudizio equo dei deputati kurdi, non hanno impedito, nel 1994, la condanna di questi ultimi a quindici anni di prigione per reati di opinione... Sono, d'altro canto, gli stessi procuratori e giudici della Corte per la sicurezza dello stato, responsabili della condanna dei deputati kurdi, che giudicheranno Ocalan secondo leggi e procedure incompatibili con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Ricordiamo, a chi lo abbia dimenticato, come si è svolta l'esecuzione del leggendario capo della rivolta kurda del 1937, Seyit Riza, caduto nelle mani delle truppe turche il 5 settembre1937. Per festeggiare l'evento, Ataturk decise di recarsi il 30 novembre nella regione, ufficialmente per inaugurare un ponte sull'Eufrate. Avendo appreso dai suoi servizi che alcuni notabili locali volevano "importunare" il "padre della nazione turca" per chiedergli di salvare la vita al condannato, scrive nelle sue Memorie (1) Ihsan Sabri Caglayangil, che diventerà alla fine degli anni 70 presidente della Repubblica, "Fui inviato sul luogo come messaggero dal governo, affinché coloro che dovevano essere impiccati, lo fossero prima della visita di Ataturk". Arrivato la sera del 27 novembre, Caglayangil si reca dal procuratore che gli spiega che la Corte non può riunirsi di sabato, giorno festivo. Su consiglio del sostituto, un vecchio compagno di facoltà, va a trovare il governatore, che mette il procuratore "in congedo". Va quindi dal giudice, il quale a sua volta afferma che, legalmente, non può riunire la corte prima di lunedì 30 novembre. Questa viene pertanto convocata nella notte tra domenica e lunedì, in una sala rischiarata dalla luce di torce a vento. Conformemente alle istruzioni ricevute, la Corte condanna il capo kurdo e sei suoi compagni alla pena capitale.

Il verdetto è senza appello, e il generale Abdullah Pasha, la suprema autorità militare della regione, firma anticipatamente la ratifica della sentenza su carta libera: i sette condannati sono quindi condotti, alle tre del mattino, al patibolo innalzato su una piazza, alla luce dei fari delle auto della polizia. L'anziano capo kurdo, di 75 anni, sale sul patibolo, respinge il carnefice, si stringe lui stesso la corda intorno al collo e urla: "Non avete finito con i kurdi. Il mio popolo mi vendicherà!" Il giorno dopo, Ataturk comincia la sua visita.

Giustizia era stata fatta, le forme rispettate e la ribellione kurda "definitivamente domata".

Con la violenza della disperazione Senza illusioni il Pkk già prepara i suoi militanti al fatale epilogo, mettendo in rilievo questa frase attribuita ad Ocalan: "La mia morte servirà la causa kurda ancora meglio che la mia vita". Il consiglio presidenziale del Pkk che comprende com'è noto Cemil Bayik, numero due dell'organizzazione, Osman Ocalan, fratello di "Apo", e Murat Karayalçin ha fatto leggere, il 18 febbraio, sulle antenne della rete kurda Med-Tv, un comunicato che chiamava "all'estensione della guerra a tutti gli obbiettivi civili e militari, in Turchia e in Kurdistan" e al "proseguimento delle manifestazioni pacifiche all'estero".

Questa nuova direttiva considera, in effetti, che "tutti i membri del Pkk vivranno e lotteranno ormai come fedayin" e che "la Turchia sbaglia a pavoneggiarsi, e rimpiangerà presto Ocalan che ha fatto di tutto per evitare che il conflitto che oppone i suoi partigiani all'esercito turco degenerasse in una guerra turco-kurca". La stampa del Pkk pubblica regolarmente editoriali che incitano a radicalizzare la lotta: visto che il mondo per i kurdi è divenuto un inferno, trasformiamolo in un inferno per tutti i turchi e i loro alleati occidentali; che ogni kurdo diventi una bomba, affinché il nostro sacrificio apra gli occhi dell'umanità sulla tragedia kurda in Turchia! Avremmo torto a prendere alla leggera queste minacce alimentate dalla disperazione. Migliaia, forse decine di migliaia di kurdi, sono capaci di buttarsi nella cieca violenza. Malgrado ciò, la Turchia resta sorda alle più elementari rivendicazioni, come il riconoscimento dei diritti linguistici. In una dichiarazione al quotidiano Milliyet, il 19 febbraio, il presidente Suleyman Demirel ha rifiutato ogni apertura ed ha escluso ogni possibilità di accordare ai kurdi il diritto ad avere scuole e mezzi di comunicazione nella loro lingua, in quanto ciò porterebbe alla "divisione del paese". Secondo il primo ministro, Bulent Ecevit, ultranazionalista di "sinistra", responsabile dell'invasione di Cipro nel 1974, la cattura di Ocalan metterà termine "definitivamente" alla "cosiddetta questione kurda creata da centrali straniere".

Circa 850.000 kurdi vivono in diversi paesi dell'Europa occidentale, e il costante afflusso di rifugiati, dovuto alla guerra, pone il problema, sempre più serio, dell'ordine pubblico.

Vale a dire che i capi di governo occidentali hanno interesse a intervenire presso Ankara. Sono i soli in grado di forzare la mano alla Turchia, affinché riconosca, infine, ai quindici milioni di kurdi di questo paese, uno statuto accettabile, simile d'altronde a quello che il gruppo di contatto cerca di imporre alla Serbia per la protezione del milione e ottocentomila albanesi del Kosovo. I kurdi ne hanno abbastanza della politica occidentale del "due pesi, due misure".

Resteranno, all'alba del XXI secolo, l'unico popolo al mondo, di quest'importanza numerica, senza una riconosciuta esistenza legale?

 

note: *Presidente dell'Istituto kurdo di Parigi
(1) Ihsan Sabri Caglayangil, Anilarim (Memorie), Yilmaz Yayinlari edit., Istanbul, 1990. (Traduzione di L.B.)

http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Marzo-1999/9903lm02.01.html